domenica 17 maggio 2020

CON LA FINE LOCKDOWN PUÒ SALIRE LA "SINDROME DELLA CAPANNA": LA PSICOLOGA ELETTRA DE AMBROSI, «LA PAURA PUÒ ESSERE SCONFITTA IN DUE SETTIMANE»

Lo scorso 21 marzo, ormai quasi due mesi fa, Chioggia Azzurra aveva ospitato l'intervento della neuropsicologa Elettra de Ambrosi relativo alle reazioni della popolazione alle prime serrate dovute al Coronavirus. Oggi la dottoressa De Ambrosi torna a occuparsi della materia, per intervenire in merito alla cosiddetta "sindrome della capanna" o "del prigioniero", ovvero la condizione di disagio che colpisce chi, dopo un periodo di clausura forzata, è restio a uscire e riprendere la routine esterna più o meno abituale.

«Non si tratta di un disturbo mentale diagnosticabile - esordisce la dottoressa - e la Società Italiana di Psichiatria stima in un milione il numero delle persone che ne sono affette o stanno per esserlo a causa della "fase 2" del Coronavirus». La sindrome in effetti ha a che fare con i cambiamenti in atto, e con la possibilità data di muoversi per praticare attività motoria o incontrare i parenti: «Non tutti vogliono uscire - sottolinea Elettra de Ambrosi - e affrontare l'ambiente esterno, come avviene per chi è stato sottoposto a ricovero e come è stato riscontrato in passate epidemie o l'11 settembre 2001».
Si tratta di soggetti che stanno bene a casa e non vogliono vedere le persone: «È una condizione fisiologica - insiste la neuropsicologa - che appunto non indica la presenza di patologie, ma va tuttavia monitorata. Dovrebbe risolversi in due o tre settimane, ma qualora dovesse prolungarsi e diventare cronica, con uno stato di ansia prima dell'uscita, è il caso di contattare un professionista della salure mentale, per affrontarla e tornare come prima».
Perché si manifesta questa sindrome? «Accade là dove si fatica a creare una propria nuova routine - analizza la dottoressa De Ambrosi - ovvero le persone percepiscono di non avere motivi per uscire, con la paura di vedere i cambiamenti subiti e difficili da accettare. Ma non si tratta di agorafobia, ovvero l'ansia da spazi aperti: alcuni hanno solo paura di venire contagiati e di contagiare. Ripeto, si tratta di una condizione destinata a risolversi da sola con l'adattamento graduale alla realtà modificata».
Esistono comunque accorgimenti per aiutare a uscirne, intervenendo proprio sulla riduzione dell'ansia: «Due di questi sono la narrazione agli altri della propria esperienza e la scrittura terapeutica di ciò che si sta vivendo, con tecniche di rilassamento quali il training autogeno, lo yoga o il miglioramento della propria respirazione».
Anche i bambini ne possono venire colpiti: «Occorre parlarne con loro - conclude Elettra de Ambrosi - ma senza censure e "non detti", evitando anzi di far credere che tutto stia andando bene. Questo perché i bambini avvertono le ansie degli adulti anche tramite il linguaggio non verbale. Per questo è essenziale dire loro ciò che sta succedendo: uscire e riprendere la propria vita è essenziale».

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